“Se tutti andassero in guerra solo in base alle proprie convinzioni, le guerre non ci sarebbero più”. Così Lev Tolstoj, in “Guerra e pace”, ragionava sulle origini di tutti i conflitti.
Lo faceva, lo scrittore russo, a circa dieci anni dalla Guerra di Crimea, quella iniziata nel 1853 e conclusasi nel 1856 o forse, paradossalmente, non finita mai.
Lo faceva, il filosofo russo, per raccontare i successivi avvenimenti della resistenza russa alla campagna Napoleonica, da indomito pacifista.
Lo faceva, lo storico russo, perchè la guerra l’aveva fatta davvero, nel 1851 da volontario in Caucaso e, nel 1853, in difesa di Sebastopoli.
La stessa Sebastopoli, Ucraìna dalla data di scioglimento dell’Unione Sovietica e fino al 2014 quando a seguito dell’invasione militare russa e con elezioni di fatto gestite dai militari nei seggi occupati, mai riconosciute in seno alle Nazioni Unite, divenne terra di tutti, ovvero di nessuno.
Ad oggi infatti, quegli stessi territori, ugualmente contesi nell’ottocento, sono contemporaneamente: una Repubblica autoproclamatosi indipendente (per la Russia); un territorio Ucraino (per l’Onu); qualcosa da fare finta di non vedere (per Europa e Stati Uniti).
Perchè vedere, per il “fronte occidentale”, significherebbe impedire una soluzione politica ad una declinazione diversa della stessa guerra che, di fatto, si è scelto di considerare risolta (solo politicamente, appunto) nel 2015 con il protocollo di Minsk.
Un trattato di pace teorico, perchè ripetutamente violato da parte Russa fin dal 2016 e poi, ancora, nel 2018 e nel 2021 che ha solo riconosciuto lo stato di fatto della supremazia della forza, senza però affermare nessun principio o riconsocimento internazionale al Paese occupante.
Non sarebbe stato difficile prevedere che una pace finta sarebbe stata destinata a cadere e cedere, inesorabilmente, lo spazio ad una guerra vera.
Magari non nel 2021, quando 100mila soldati russi si sono spostati al confine Ucraino nel silenzio colpevole della comunità internazionale e, magari, nemmeno nel gennaio 2022, quando quei soldati sono divenuti 180mila. Ma, sicuramente, almeno un mese dopo, quando (chi lo avrebbe detto) le truppe più numerose mai smosse in Europa dalla seconda guerra mondiale, sono effettivamente entrate in Ucraina, dando vita (con i morti) all’invasione militare in Dombass.
E invece no, nemmeno allora si è pensato ad una occupazione militare. Era solo una mossa difensiva della Russia. Ci hanno detto così, nel 2022, quando la guerra sarebbe dovuta essere solo un “lampo”, per proteggere Mosca dalla presunta avanzata della Nato.
Il tentativo di accerchiamento di Kiev appare evidente, ad alcuni, solo tre anni dopo, dal momento che i Russi sono ancora lì, con il favore delle luminosissime tenebre del lampo più lungo della storia.
Eppure a ben guardare, fin dal primo momento le forze di occupazione hanno agito su 4 fronti: a Nord dalla Bielorussia, ma a Sud proprio dalla Crimea. Eh sì, la famosa Crimea ispiratrice del russo Tolstoj.
Quella attuale allora è una guerra difensiva o una guerra di avanzamento? Magari proprio ripartendo dai territori conquistati dieci anni prima e concessi (sebbene mai riconosciuti) da un trattato considerato un buon punto di “pace” per i politici pronti a vantarsi del protocollo di Minsk?
E, più in generale, può dunque essere la pace il mero riconoscimento politico degli effetti militari della guerra? La storia, recente o meno, ci ha insegnato di no. Ma lo ha insegnato davvero a tutti? E cosa abbiamo imparato?
Se l’attuale invasione dell’Ucraina è la conseguenza della “pace” in Crimea, una eventuale nuova futura invasione di Kiev (già tentata e fallita nel 2022), sarà la conseguenza di ciò che si stabilirà essere oggi il putno di non ritorno.
Tutto dipenderà, inevitabilmente, dai prossimi trattati che dovranno condurre (certo) alla fine delle attuali ostilità, ma anche all’inizio di un percorso di normalizzazione reale che non riconosca la risorsa bellica come portatrice di benefici per chi la attua.
La guerra, nel terzo millennio, è la stessa (sebbene più tecnologica ed evoluta) di quella raccontata da Tolstoj, ma la pace, nel 2025, non è più solo un ideale patriottico, di affermazione di supremazia nazionalistica.
Quello è l’alibi da dare in pasto ai popoli.
La pace del futuro è l’idea culturale che si stava radicando nell’Europa post-bellica della seconda metà del ‘900 e che ha portato il vecchio Continente ad un periodo di prosperità e “amicizia” tra i Popoli che rendeva finanche anacronistici i conflitti studiati sui libri di scuola considerati, dalle generazioni che non hanno combattuto, superati e irripetibili.
Ma è questo ideale di mondo che vuole Putin? E’ ciò per cui sta lavorando Trump?
“L’Europa è come costretta – diceva Enrico Berlinguer nel 1984 – per sue intrinseche ragioni non solo economiche, a una politica di pace. A costringerla c’è il fatto che è, tra Ovest ed Est, territorio di confine e di incrocio. Non solo una guerra totale, come è ovvio, ma anche una guerra locale, di “prova” e di “esibizione”, fra le massime potenze, avrebbe per l’Europa conseguenze di annichilimento”.
Oggi invece, nel 2025, Trump parla di dazi contro l’Europa, di muri contro i messicani, di guerre economiche ai non americani, di blocchi politici a tutela di presunti progetti nazionalistici.
Lo slogan “L’america prima” è senza dubbio efficace dal punto di vista comunicativo. Ma quale di questi due mondi e modi di vedere il futuro è più moderno?
Qual è il vero interesse dei popoli, oggi? La guerra o la pace?
E, soprattutto, quale pace?
Tolstoj docet.